L'Europa, l'apparente immobilismo e l'autoritarismo strisciante

Non ci saranno grandi scossoni negli assetti europei, dopo le elezioni di domenica scorsa. La Commissione sarà nominata dalle designazioni dei governi; nelle grandi scelte politiche continuerà ad essere in vigore l’asse tra socialisti, popolari e liberali che stavolta, contrariamente al passato, risultano decisivi per la formazione della maggioranza e riusciranno, dopo anni di esclusione, ad ottenere il Presidente del Parlamento europeo.
La banca centrale europea continuerà a dettare legge in materia economica e finanziaria; continueranno le politiche di marginalizzazione sociale; la rigidità della politica di bilancio continuerà a stritolare i tentativi di applicare politiche espansive; le logiche proibizioniste in materia di libertà di circolazione e di accoglienza, malgrado i proclami umanitari, saranno la bussola per la politica interna; tante buone risoluzioni sui diritti civili e in materia di tutela ambientale che, puntualmente, saranno disattese da numerosi Paesi membri, a partire dall’Italia.
Ad una prima lettura, sembra che l’esito delle elezioni europee non produrrà alcuna modifica, ma (purtroppo!) non è così.
È da anni che nei Paesi dell’Unione si registra un’avanzata delle forze politiche nazionaliste, con una narrazione populista, culturalmente xenofobe, liberiste in economia e rappresentate da una leadership fortemente carismatica.
Questo processo è in costante e progressivo avanzamento ed ha sempre una manifestazione, ancora più evidente in occasione delle elezioni europee. Per due ragioni.
1) Il sistema elettorale proporzionale, che contraddistingue l’elezione per il Parlamento di Strasburgo, rende l’espressione del voto libero da condizionamenti connessi alla nomina dei governi.
2) La distanza tra le istanze continentale e le rivendicazioni nazionali e territoriali determina l’esaltazione di pratiche nazionaliste protese alla difesa della propria identità. Il nuovo nazionalismo è stata la risposta più semplice ai danni prodotti dalla globalizzazione capitalistica, sostenuta dalle liberal-democrazie mondiali, e dalle pratiche a-democratiche delle istituzioni sovrannazionali. 
Tale opzione politica si manifesta attraverso pratiche e forme di comunicazione populiste. Ed è lo stile comunicativo che diventa ancora più efficace dello stesso messaggio.
Il filosofo politico spagnolo José Luis Villacañas Berlanga analizza lo schematismo, spesso pre-politico, dell’impostazione populista.
“Il populismo deve implicare una visione manichea del mondo e dei gruppi umani, manifestando chiaramente un nemico interno. (…) L’antagonismo politico è costitutivo. La forza antagonistica (la casta, l’oligarchia, l’élite o come la si voglia chiamare) può essere battuta ma non può essere recuperata. Ciò significa che non si deve prescindere dalla retorica dell’antagonismo. Lo spazio politico deve continuare a rimanere fratturato”.
Questa modalità accomuna Marine Le Pen, i presidenti del gruppo di Viségrad, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, i neofascisti tedeschi e spagnoli, i leader austriaci e quelli del Brexit Party… tutti cresciuti nella crisi dei partiti tradizionali che, abbandonando le teorie politiche tradizionali otto-novecentesche, si sono rifugiati nella ricerca spasmodica del consenso al centro. È stato cancellato, in questa ossessione post-idelogica, oltre un secolo di storia politica dell’Europa prima con la disgregazione dei partiti dell’euro-comunismo e poi con la scomparsa degli storici partici socialisti e socialdemocratici, oggi in crisi profonda in Francia, Germania, Regno Unito, Grecia, Austria. 
In questa corsa al centro, tutta la sinistra ha perso contemporaneamente il suo blocco sociale di riferimento e le sue peculiarità programmatiche, consegnandosi alle tempeste nazional-populiste.
Questo fenomeno ha avuto la sua rappresentazione estrema alle ultime elezioni americane che hanno visto il trionfo di Donald Trump. Naomi Klein, non a caso, parla di un vero e proprio shock politico.
“Stanchi dei tradimenti, alcuni hanno mollato i partiti centristi e hanno votato per i sedicenti “indipendenti” e “ribelli” come Trump. Anche altri in tutto il mondo hanno mollato, punto: restando a casa alle elezioni, staccandosi dalla politica elettorale, convinti che l’intero sistema sia truccato e non contribuirà mai a migliorare la loro vita.”
Questo è l’altro aspetto della questione che si evidenzia nella bassa affluenza elettorale in tutti i Paesi dell’UE. Questo dato è direttamente proporzionale alla crescita dei nazionalisti.
Il disinteresse per le pratiche democratiche o l’abbandono del campo elettorale manifesta una perfetta simmetria tra le pulsioni anti-democratiche (che determinano sfiducia nelle istituzioni e nei meccanismi di selezione dei gruppi dirigente) e la crescita delle forze populiste e xenofobe (che si nutrono della retorica anti-sistema e anti-migranti).
Questo è lo scenario politico che emerge da un’analisi, seppur sommaria, dei risultati elettorali di domenica scorsa nei Paesi dell’Unione europea. E il dato è preoccupante perché ricorda l’avanzata costante dei partiti autoritari tra gli anni venti e trenta del Novecento che andarono al potere attraverso le elezioni, nel grigiore astensionistico e nella sottovalutazione delle loro follie programmatiche.
Lo storico americano Timothy Snyder ricorda che uno dei principali quotidiani ebraici tedeschi, dopo la vittoria elettorale di Hitler del 1933 pubblicò un editoriale in cui si affermava: “Hitler e i suoi amici non priveranno gli ebrei tedeschi dei loro diritti costituzionali, non li costringeranno a vivere nei ghetti, a subire gli impulsi gelosi e omicidi della marmaglia. Non possono farlo perché molti fattori cruciali tengono a freno i loro poteri…”
Non siamo ancora dentro questo quadro storico ma la progressione dei fatti politici mi induce a dire che le prossime elezioni europee, tra cinque anni, rischiano di cancellare l’apparente immobilismo che ha contraddistinto l'Unione europea negli ultimi quarant'anni.

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